Come si è evoluta secondo lei la quintana di Ascoli nel corso degli anni?
Per natura sono un tradizionalista quindi ogni modifica la prendo con le pinze. Devo riconoscere che le nuove normative per tutelare cavalli e fantini hanno costretto l’Ente a rivedere tutto il suo impianto: pista, fondo e giostra sono riadattate per essere più piacevoli. Il vecchio percorso disegnato da De Angelis è romanticismo, sono stati fatti enormi passi avanti e questo va riconosciuto. C’è un lavoro di squadra che ha reso più facile il compito a tutti, anche a noi che lavoriamo con le scuderie. La manifestazione è cresciuta, veterinari, maniscalchi, fantini, sono mestieri che non si improvvisano più, ora siamo nel professionismo. In questa crescita però, la giostra è stata “folignatizzata”: curve arrotondate, fondo scorrevole e nessuna buca.
Quali sono le peculiarità della giostra di Ascoli rispetto a tutte le altre?
Togliendo lo scudo, Arezzo ha lance diverse e la velocità è diversa, lì c’è un rettilineo di 40 metri. Qui il tempo ha un alto valore, la velocità è sostenuta e l’impatto è molto forte. Secondo me è la vera quintana: l’anello è un gioco di abilità e tecnica, ma al moro c’è anche il livello fisico della resistenza. Per me è la quintana più bella d’Italia ed è una cosa seria, merita rispetto e dedizione. Ci ho sempre tenuto a far bella figura con i miei cavalli, pubblico e sestieranti meritano onore e rispetto.
Parlando del pubblico, che ne pensa delle polemiche per i fischi nell’ultima tornata di Innocenzi?
Quando uno vince, come riesce a fare un cavaliere immenso come Innocenzi, deve avere il rispetto del pubblico. La tifoseria però si lascia prendere ma fa parte del gioco. Ricordo che quando Vignoli iniziò a vincere con Borghesia in campo arrivava di tutto, dalle bottigliette fino addirittura alle frecce (si c’era chi le tirava con l’arco!). Una prestazione del genere non ti permette di pensare ad un fischio o ad altro, e non mi è sembrata così scandalosa la cosa. Se parliamo di eleganza non sono il massimo ma ci stanno e bisogna accettarli. Il pubblico soffre questa ‘supremazia’ di Innocenzi, non dettata solo da cavaliere e cavallo ma anche da uno staff di prim’ordine, da un caposestiere che è riuscito a far ottenere al suo cavaliere ciò che voleva (dall’apertura degli scudi al cambio del fondo). È stato furbo o bravo, ma fatto sta che questo binomio, questa macchina da guerra che ha Solestà funziona.
Cosa pensa dei cavalieri in circolazione attualmente?
Io ho sempre seguito la scuola faentina e purtroppo sta attraversando un periodo di crisi profonda a livello tecnico, non sta sfornando dei buoni cavalieri. Si deve ripartire dalle basi, dall’equitazione. A Faenza c’è questa mentalità: non vengo ad Ascoli perché non voglio spaccarmi il braccio e ciò non va bene perché se affronti il moro e il percorso con la dovuta tecnica e il meritato rispetto si può fare tutto. Negli anni ottanta ad Ascoli c’erano tanti faentini (nell’86 erano 6 su 6).
Adesso i folignati hanno imposto la loro scuola, la pista gli si addice molto così come la tipologia di corsa. A livello agonistico impostano la gara alla loro maniera: partono al massimo e arrivano al massimo, poi se uno sbaglia pazienza, ed è così sin dalle prove. Il faentino vive una crisi d’identità, l’ultimo ad aver vinto è stato Willer Giacomoni del 2002.
C’è qualche episodio particolare sconosciuto ai più che vuole raccontarci?
Ricordo con piacere l’armonia che regnava dietro le quinte dello Squarcia. C’erano 6 cavalieri con il proprio staff e un senso di responsabilità forse maggiore. Non c’era bisogno di orari per le prove: si girava, c’era solidarietà e rispetto. Adesso l’ambiente è più tirato e professionale, tanti vogliono essere protagonisti a tutti i costi e questo crea rivalità a volte inutili. Non che dietro si faccia la guerra eh! Ma prima era più ‘romantico’, ora è puro professionismo: prima si centellinavano prove e forze dei cavalli (che correvano fino ai 16 anni), ora c’è una preparazione diversa. Per ottenere certi risultati devi applicarti sul cavallo al 100 per cento, non solo nell’allenamento, ma anche nell’alimentazione.
Un ricordo per ognuno dei grandi faentini?
Placci: era un fantino fai-da-te. Non molto tecnico, forte fisicamente, caratterialmente debole, introverso, spesso si faceva condizionare dalla sua prestazione. Andava tutelato e protetto durante la corsa, ad esempio soffriva l’annuncio dei punteggi.
Poggiali: dotato tecnicamente ma caratterialmente più debole.
Ricci: Sicuramente il più apprezzato da me perché mi ha venduto Borghesia e lo ringrazierò finchè vivo. MI ha insegnato tanto cose, soprattutto l’amore e la dedizione per i cavalli e per il suo lavoro. Sia a livello umano che sportivo mi ha dato grossi stimoli e merita ancora tutto il mio affetto e stima.
Montefiori: fisicamente un po’ pesante ma forte, molto performante. Alla fine anche lui temeva un po' il moro, si era infortunato e le microfratture si facevano sentire: prima lo scudo veniva cambiato perché si affossava, ora invece è stato migliorato.
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